Basi fisiologiche del metodo
1. L’ATTEGGIAMENTO POSTURALE PRIMARIO
La postura dell’essere umano, che caratterizza la nostra specie dalle altre esistenti sulla terra, è determinata dai segnali provenienti dalle varie sensibilità (visiva, tattile plantare, propriocettiva muscolare e articolare, vestibolare, ecc…),dall’interazione tra questi, dal contesto in cui essi sono inviati, dallo sviluppo soggettivo dello schema corporeo, e dalla sommazione e modulazione operata dal sistema nervoso centrale tra questi elementi.
L’Atteggiamento Posturale Primario è quindi proprio d’ogni persona.
È la risultante dell’evoluzione della specie umana e si differenzia da individuo ad individuo per fattori diversi rappresentati dalla razza, il sesso, il patrimonio genetico, l’ambiente socio culturale nel quale si sviluppa l’individuo stesso, le sue abitudini quotidiane, ecc.
È espressione dello stato globale del soggetto, del suo insieme psico-fisico e di relazione con il mondo esterno.
Ad ogni postura corrisponde la prevalenza d’alcune catene muscolari toniche rispetto ad altre e la rigidità distrettuale di alcuni gruppi muscolari all’interno di una stessa catena tonica.
Ogni tipologia sarà predisposta a sviluppare nel corso degli anni delle patologie specifiche sia del sistema mio-osteo-articolare che d’altri organi del corpo.
Esso è inoltre assunto per l’interazione tra fattori: genetici, meccanici, bio-chimici e psico-emozionali; i quali (tranne nel caso dei fattori genetici che sono immutevoli nel corso della vita) possono subire delle variazioni o alterazioni della loro fisiologica funzionalità, tali da determinare una variazione posturale e modificare, squilibrandolo, l’Atteggiamento Posturale Primario stesso.
1. I MUSCOLI
L’importanza che diamo alla valutazione della componente muscolare, non è data dalla considerazione del muscolo come causa di uno squilibrio posturale. Essa è imposta dal fatto che la componente tonica del muscolo, qualsiasi sia la causa di uno squilibrio, tende a fissarlo e a protrarlo nel tempo, attraverso le variazioni intrinseche che subisce in caso di postura scorretta, anche quando la causa dello squilibrio stesso sarà cessata. Questo, ad esempio, avviene in caso di posture derivanti da un riflesso antalgico: se un soggetto ha subìto una distorsione alla caviglia destra, tenderà a portare il peso del corpo sul piede opposto e questo atteggiamento posturale si manterrà anche quando il dolore alla caviglia destra sarà scomparso, sia a causa dell’ormai alterato schema corporeo e motorio, sia a causa dello squilibrio tra adduttori ed abduttori degli arti inferiori e dei muscoli che controllano l’equilibrio dell’articolazione tibio-tarsica.
Il muscolo scheletrico è costituito da fasci di lunghe fibre, ognuna delle quali è formata da miofibrille. Le miofibrille contengono filamenti proteici di actina e di miosina (responsabili della contrazione muscolare) e sono suddivise in unità contrattili funzionali dette sarcomeri. Ogni fibra muscolare, ogni fascio di fibre e ogni muscolo sono ricoperti di tessuto connettivo, nella cui sostanza intercellulare si trovano due proteine: l’elastina e il collagene.
Il muscolo non è formato quindi da un unico elemento anatomico, ma è composto da due parti – i sarcomeri e il tessuto connettivo – che formano un’unica entità. La patologia muscolare è prodotta dalla perturbazione, dalla deficienza di uno o entrambi questi elementi, e/o dall’alterato loro rapporto. Il ruolo della terapia posturale è di riportare un più fisiologico loro equilibrio all’interno del muscolo.
Tutti i compensi posturali, sia statici che antalgici, sono mantenuti dai muscoli scheletrici i quali sono sia effettori che recettori dei vari impulsi neurologici. Alla nascita, la maggior parte delle fibre muscolari dei muscoli striati sono uguali. Esse si selezioneranno gradualmente in fibre toniche, dinamiche (fasiche) e miste in seguito alle conquiste statiche e dinamiche del bambino.
Il tipo di funzione del muscolo, la durata e l’intensità della sua azione, dipendono, oltre che dalla sua innervazione assonica, anche dalla posizione del centro di gravità del corpo che costringe il muscolo ad un’attività tonica o meno. Il numero di fibre toniche, fasiche o miste di un muscolo è quindi anche proporzionale alla sua funzione. Si ha, come in ogni parte del corpo umano, una indissociabile relazione tra Funzione e Struttura.
Le fibre muscolari possono essere di tre tipi:
FIBRE FASICHE: sono fibre bianche, innervate da assoni ad alta velocità di conduzione, capaci di rapida ed elevata contrazione. Sono fibre facilmente affaticabili, con poca resistenza. La loro patologia è la debolezza, l’atrofia. Si tratta di fibre di elevata elasticità. Un muscolo con prevalenza di fibre fasiche, lunghe e parallele rispetto al suo asse longitudinale è un “muscolo dinamico”, la cui contrazione (e relativo rilassamento) è controllata dalla nostra volontà. Ha un’elevata capacità contrattile ed elastica, è al servizio dei gesti quotidiani ed è facilmente affaticabile. Si tratta di una muscolatura che ha bisogno di riposo, che può aumentare o diminuire il suo tono-trofismo, la sua soglia d’affaticamento ecc., attraverso l’esercizio fisico e l’allenamento, o a causa dell’immobilità. Sono muscoli con un ventre notevole e una piccola parte tendinea.
È una muscolatura sotto la completa dipendenza corticale del sistema nervoso centrale, la cui soglia d’eccitabilità è alta e il cui impulso nervoso necessita di un’elevata frequenza di scarica. Produce grandi spostamenti articolari anche con una lieve contrazione.
L’azione dello “stress in accorciamento” su questo tipo di fibre (per stress s’intende una situazione di lavoro del muscolo anomala rispetto alla sua fisiologica natura, in cui i capi articolari sono posti in avvicinamento), produce un loro indebolimento senza rigidità su tutta la loro lunghezza, atrofia muscolare. Inoltre il muscolo risulta debole alla valutazione funzionale. Il trattamento logico è la riabilitazione funzionale di queste fibre attraverso la fisioterapia classica.
FIBRE TONICHE: sono fibre rosse, a bassa e lenta contrazione. Sono fibre con notevole resistenza alla fatica, e bassa elasticità. Un muscolo con prevalenza di fibre toniche, corte e poste obliquamente rispetto al proprio asse longitudinale è un “muscolo tonico”, con un’elevata resistenza alla fatica, con la funzione di controllo e di mantenimento della postura in opposizione alla forza di gravità. Sono muscoli con bassa capacità elastica, che presentano una notevole parte tendinea in rapporto al piccolo ventre muscolare. La loro contrazione è totalmente riflessa e non risponde direttamente alla nostra volontà. Sono attivati dai motoneuroni alfa tonici con bassa frequenza di scarica. Il riflesso miotatico è il principale meccanismo d’attivazione di questo tipo di muscoli e il loro sistema di controllo è la fusimotricità gamma. È una muscolatura che non produce grandi movimenti articolari, anche con grandi contrazioni. La sua patologia non è mai la debolezza ma la rigidità. Uno “stress” in avvicinamento dei capi d’inserzione di un muscolo tonico ne provoca l’accorciamento, con scivolamento e imbrigliamento delle proteine d’actina e di miosina le une sulle altre, con aumento della sua forza di resistenza passiva, diminuzione della sua capacità elastica e della resistenza funzionale nel tempo (si affatica precocemente).
FIBRE MISTE: sono fibre non numerose, innervate da assoni fasici ma resistenti alla fatica.
Il tipo di fibre non è totalmente prefissato per sempre, esiste un potenziale d’adattabilità delle fibre muscolari che può trasformare le fibre fasiche in toniche e viceversa. Un esempio di ciò sono i muscoli scaleni che in seguito a patologie respiratorie, da dinamici si trasformano in tonici perdendo gran parte della loro elasticità.
2. LE LORDOSI
Le curve d’adattamento alla funzione statica e dinamica del bambino sono principalmente le curve secondarie del rachide (cervicale e lombare) e degli arti inferiori.
Nel corso dei suoi primi anni di vita, l’appoggio plantare da piatto evolve con la formazione della volta plantare e della sua complessa architettura. Le ginocchia da flesse si estendono, si ha un’antiversione pelvica e la definitiva formazione della curva lombare e cervicale.
Dall’appoggio plantare al rachide cervicale, sono soprattutto le curve lordotiche che si adattano all’evoluzione del bambino, in un rapporto reciproco che dall’appoggio dei piedi arriva – in un processo ascendente – alla posizione della testa – e all’inverso in un processo discendente.
Saranno queste zone che subiranno le principali alterazioni sul piano sagittale in caso d’impulsi squilibranti che richiedano un adattamento posturale.
È attraverso lo studio e la valutazione di queste zone che si hanno le principali indicazioni per esercitare un trattamento posturale efficace.
La lordosi è una deformazione permanente che esagera una concavità o “raddrizza” una convessità, fissata da una rigidità muscolare. Le due lordosi fisiologiche del tronco non sono altro che delle lordosi di compenso alla funzione statica e alla postura eretta conquistata dall’uomo.
Come si equilibrano queste due lordosi? Una lordosi, staticamente, non si compensa con una cifosi ma con un’altra lordosi.
Un aumento della lordosi lombare si compensa in alto coinvolgendo nella lordosi le ultime vertebre dorsali e in basso con un’antiversione pelvica. Un aumento della lordosi cervicale si compensa in alto con una lordosi occipitale ed in basso con una lordosi dorsale alta.
Questo cambia i nostri punti d’osservazione e la nostra attenzione si indirizza alla valutazione delle lordosi primarie nel tronco e negli arti inferiori.
La muscolatura tonica è un unico insieme le cui parti si compensano reciprocamente al fine di mantenere l’orizzontalità dello sguardo, la verticalità della testa e la linea mediana di gravità del corpo all’interno del poligono di sostegno, sia nella stazione eretta che nelle varie posture.
In un processo statico i due sistemi adattativi – ascendente e discendente – lavorano insieme indissociabilmente. Se l’allungamento muscolare fosse diretto esclusivamente alla zona di rigidità primaria, questo provocherebbe dei compensi e delle zone di fuga che annullerebbero l’efficacia del trattamento, trasferendo le rigidità o in un altro piano dello spazio (sullo stesso segmento osseo) o in un’altra zona del corpo.
Basi tecniche
A) LA MESSA IN TENSIONE
Il tessuto connettivo e le fibre muscolari hanno una crescita tra loro parallela e reagiscono alle tensioni.
Nel tessuto connettivo sono presenti delle molecole d’elastina che si rigenerano due o tre volte nel corso della vita, sono disposte a maglia e costituiscono la parte elastica del tessuto; non abbiamo alcuna possibilità d’intervento su di esse.
Le fibre collagene si raggruppano in fasci connettivi che sono l’elemento solido del muscolo.
L’attività delle cellule del tessuto connettivo, i fibroblasti, è di secernere collagene sotto lo stimolo meccanico delle tensioni muscolari.
• Le tensioni prolungate determinano una produzione in serie del collagene e una produzione in serie dei sarcomeri lungo l’asse longitudinale del muscolo.
• Le tensioni ripetute (contrazione-rilassamento) inducono una produzione in parallelo di collagene e sarcomeri lungo l’asse trasversale del muscolo.
• Le posizioni di rilassamento o accorciamento provocano una diminuzione del numero dei sarcomeri, una densificazione del collagene, una degenerazione fibrotica del tessuto connettivo e un’imbricazione dei filamenti d’actina e miosina.
Il tessuto connettivo si produce, in ognuno di questi casi, parallelamente ai sarcomeri.
L’elasticità di un muscolo dipende dal numero di fasci connettivi di collagene e dalla loro disposizione all’interno di esso.
La lunghezza di un muscolo è in rapporto alla tensione esercitata su di esso dalla crescita ossea; ad esempio in una scoliosi i muscoli della concavità sono più corti di quelli della convessità. Le immagini di RM della zona lombare in un soggetto con scoliosi lombare evidenziano l’accorciamento dello Psoas dal lato della concavità e l’allungamento del controlaterale, dal lato della convessità.
La parte tonica dei muscoli tenderà ad accorciarsi. Le fibre toniche di un muscolo sono sempre in azione (tranne durante la fase REM del sonno) e tirano sulle proprie inserzioni. Questa è “l’attività spontanea del sistema tonico”.
L’avvicinamento dei capi articolari di un muscolo con prevalenza di fibre toniche (“muscolo tonico”), non determinerà l’abbassamento del suo tono muscolare – che rimarrà invariato a prescindere dalla sua lunghezza per continuare ad esercitare la sua funzione statica. Si spiega così la patologia della muscolatura tonica: LA RIGIDITÀ e L’ACCORCIAMENTO.
La rigidità muscolare inoltre, non scompare con il lavoro attivo degli antagonisti in quanto il motoneurone somma algebricamente i diversi impulsi che riceve, e quello dato dal riflesso d’innervazione reciproca è soltanto uno di questi impulsi. L’attività dell’antagonista non ha nessuna azione sulla componente fibrosi del muscolo retratto. Tale rigidità muscolare, è normalmente causata dall’avvicinamento dei capi d’inserzione articolare dei muscoli interessati per le varie cause cui si è già accennato in precedenza.
Lo scopo del trattamento posturale è di lavorare sulle rigidità muscolari e le loro cause primarie.
Il trattamento logico per vincere le rigidità sarà la “messa in tensione”.
Questa “messa in tensione” dovrà essere globale, leggera e progressiva senza produrre il riflesso di stiramento. Sarà effettuata in tre posture – supini, seduti, in piedi – permettendo l’allungamento della muscolatura tonica rigida senza zone di fuga né compensi.
Il nostro scopo è di arrivare alla soglia di deformazione dei muscoli accorciati attraverso questa formula:
“Più un muscolo è rigido, minor forza si dovrà esercitare ma per un tempo più lungo, al fine di arrivare alla sua deformazione di lunghezza permanente”.
Quanto detto implica delle leggi che regolano il nostro trattamento posturale.
1. Nel momento in cui si mette un muscolo in tensione su di un piano dello spazio, esso tenderà a sottrarre la lunghezza mancante sugli altri due piani. Ad esempio una messa in tensione del semimembranoso e del semitendinoso sul piano sagittale, determinata dalla flessione anteriore del tronco, quindi dall’allontanamento del loro capo d’inserzione prossimale a livello della tuberosità ischiatica, provoca un compenso nella loro inserzione distale a livello della zampa d’oca, con l’ intrarotazione tibiale. Una messa in tensione del muscolo psoas unilateralmente sul piano sagittale, allontanando il suo capo d’inserzione distale a livello del piccolo trocantere, provoca una lateroflessione dallo stesso lato e una rotazione dal lato opposto del rachide lombare e di D12, cioè nei suoi punti d’inserzione prossimale.
1ˆ Legge: Per esercitare un reale allungamento del muscolo retratto, non si dovranno permettere dei compensi o delle vie di fuga in uno o più piani dello spazio, altrimenti ciò che è allungato su uno dei tre piani dello spazio è sottratto agli altri due. Ogni messa in tensione deve essere esercita sui tre piani dello spazio: sagittale, frontale, orizzontale.
2. Nel momento in cui viene messo in tensione un muscolo si nota che, secondo dove si esercita la leva di forza durante la messa in tensione, l’inserzione distale o prossimale del muscolo tende a muoversi, avvicinandosi alla direzione della forza di trazione. Ad esempio: in una lateroflessione cervicale che mette in tensione tra gli altri il muscolo Trapezio superiore, noteremo che la spalla controlaterale alla lateroflessione cervicale (cioè il punto d’inserzione distale del Trapezio superiore) tenderà a seguire il movimento del rachide cervicale. In una messa in tensione del muscolo Psoas con il paziente supino e con le cosce divaricate e la pianta dei piedi a contatto (a ginocchia flesse), il rachide lombare s’inarca aumentando la sua lordosi, in quanto tende ad avvicinarsi al femore. Con il soggetto supino e con una rigidità a livello dello SCOM, si nota un aumento della lordosi cervicale e il mento non è parallelo allo sterno ma è diretto verso l’alto. Abbassando il rachide cervicale ed il mento, la cassa toracica (punto d’inserzione distale dello SCOM) si solleva dal suolo.
2ˆ Legge: Ogni messa in tensione di un muscolo retratto deve necessariamente avere un punto fisso e l’altro in “allontanamento” da esso. Si lavora in contrazione eccentrica.
3. Ponendo un paziente supino ed elevando passivamente le gambe verso il tronco, si osserva che nel momento in cui i muscoli posteriori degli arti inferiori sono in tensione si ha prima il distacco dei glutei dal suolo, poi il tronco compensa con un aumento della lordosi dorsale bassa e della lordosi cervicale.
3ˆ Legge: Il muscolo che alla valutazione è risultato rigido, che chiameremo zona di rigidità primaria, va posto in tensione nei tre piani dello spazio impedendo i compensi su tutta la catena tonica di cui esso fa parte. Altrimenti ciò che si conquista in una zona della catena tonica, viene sottratto da altre zone della stessa, determinando un accorciamento complessivo di essa o quantomeno un suo mancato allungamento globale. Un allungamento globale è possibile soltanto con un lavoro posturale che ponga le catene toniche rigide in tensione nella loro totalità.
4. All’interno di una catena tonica, sia essa anteriore o posteriore, si hanno delle zone d’ipomobilità articolare che corrispondono alle zone di rigidità muscolare e al muscolo cosiddetto “freno”. Si hanno poi delle zone d’ipermobilità articolare, che corrispondono ai muscoli “vinti” all’interno della stessa catena muscolare. Un’ipomobilità nel rachide lombare e cervicale con conseguente aumento delle rispettive lordosi, porta ad un’ipermobilità dorsale media, che corrisponde alla zona in cui i muscoli posteriori a quel livello rachideo sono stati vinti. Staticamente una lordosi si compensa con un’altra lordosi. Cineticamente, una lordosi e un’ipomobilità articolare, si compensa con una cifosi-ipermobilità articolare. Alla zona di ipomobilità articolare corrisponderanno, in alto e in basso rispetto ad essa, zone di ipermobilità articolare.
4ˆ Legge: È fondamentale mettere in tensione le zone d’ipomobilità articolare, lasciando “neutre” le zone d’ipermobilità, zone già troppo sollecitate. Assolvono questa funzione i cuscini che vengono usati nel Metodo delle Tre Squadre e l’angolo di “messa in tensione” degli arti inferiori rispetto al tronco durante le varie posture. Bisogna mettere in tensione globalmente tutta la catena muscolare statica rigida, ma all’interno di essa riequilibrare le tensioni evitando di sollecitare ulteriormente le zone che sono ipersollecitate e “mirando” con le posture alle zone iposollecitate ed ipomobili. La valutazione del soggetto deve essere quindi mirata all’evidenziazione delle zone ipo-ipermobilità all’interno della stessa catena statica e in quella antagonista.
Il Metodo delle “Tre Squadre”, per posture d’allungamento e di messa in tensione delle catene muscolari toniche accorciate, risale di lordosi in lordosi, di rigidità in rigidità, tendendole da un capo all’altro nei tre piani dello spazio.
B) LA VALUTAZIONE
La fisiologica postura del soggetto, può essere modificata da uno o più impulsi squilibranti che divengono egemoni nella relazione tra i vari segnali che regolano l’Atteggiamento Posturale Primario. Tali impulsi squilibranti possono essere causati da vari fattori:
1. alterazione delle sensibilità (visiva, tattile plantare, propriocettiva muscolare e articolare, vestibolare, ecc…)
2. abitudini quotidiane (gesti o posture viziate, ripetute nel lavoro, a scuola, ecc.)
3. atteggiamenti antalgici (riflesso antalgico e riflesso antalgico a priori)
4. limitazioni traumatiche o funzionali (traumi, anchilosi, artrosi, ecc.)
altro
Nel caso in cui un segnale squilibrante (per una qualsiasi causa) diviene egemone rispetto a tutto il sistema di mantenimento dell’equilibrio posturale, il complesso sistema di mantenimento della postura cerca un nuovo equilibrio a partire dal segnale squilibrante stesso. La nuova postura sarà quindi data dalla risultante della riorganizzazione dell’interazione tra i vari segnali (afferenti e programma centrale).
Pertanto la postura del soggetto sarà in quel momento la sua postura ideale, pur nello squilibrio stesso. Il segnale squilibrante può essere di breve, media e lunga durata.
Maggiore sarà la durata di tale impulso, e maggiormente risulterà impegnativo riportare il soggetto ad una postura corretta. Una postura squilibrata alla quale si costringe il corpo per diverse ore al giorno e per più giorni a settimana (ambiente di lavoro, scuola, ecc.), se protratta nel tempo nel tempo, determinerà l’instaurarsi di un atteggiamento posturale anomalo, che il corpo avverte come corretto.
Ciò dipende essenzialmente dal fatto che una postura squilibrata cronicamente crea un’alterazione dello schema corporeo, motorio e uno squilibrio muscolare tonico che tende a fissare tale postura.
Inoltre è determinante sia la qualità del segnale anomalo che la sua intensità. Un segnale anomalo che può essere compensato dai diversi organi che presidiano il controllo posturale e che quindi non ha la possibilità di divenire egemone, non è in grado di squilibrare la postura del soggetto. Per contro, un segnale squilibrante che non ha la possibilità di essere compensato da nessun’altra sensibilità e diviene egemone, squilibra notevolmente la postura.
L’intensità del segnale squilibrante potrà essere debole, media o alta.
Sarà la relazione tra la qualità del segnale, la sua durata e (in misura minore) la sua intensità, che produrranno uno squilibrio posturale.
La valutazione dell’origine del segnale anomalo squilibrante è determinante ai fini del riequilibrio posturale, per mirare il trattamento alla causa primaria dello squilibrio.
Non sempre una postura squilibrata deve essere necessariamente corretta.
Essa può essere funzionale ad un dolore o ad un deficit delle sensibilità pertanto una correzione dello squilibrio posturale potrebbe far manifestare un dolore acuto o essere causa di una limitazione ulteriore delle capacità funzionali del soggetto. Ad esempio, la correzione di una postura squilibrata da un problema visivo ad un solo occhio senza aver affrontato tale problema, non riuscirà a mantenersi nel tempo e si non sarà funzionale alla patologia primaria del soggetto. Un atteggiamento posturale di flessione anteriore del tronco in un soggetto con stenosi del canale a livello di una o più vertebre lombari non deve essere corretto, in quanto l’atteggiamento posturale è funzionale alla patologia stessa e la sua correzione non farà altro che provocare un aumento della sintomatologia dolorosa. Per contro, un dolore lombare o cervicale, causato da una postura scorretta che si assume per diverse ore al giorno non potrà essere risolto senza un riequilibrio posturale. La stessa cosa vale per continui blocchi articolari a livello della cerniera lombo-sacrale, causati da un’accentuazione della lordosi lombare.
È quindi fondamentale, in ogni trattamento posturale squilibrato, risalire alla causa primaria dello squilibrio e lavorare contemporaneamente su di essa e sulle forze muscolari che mantengono lo squilibrio da essa causato.
Per questo è assolutamente indispensabile lavorare in collaborazione con altre figure professionali quali neurologo, ortopedico, fisiatra, ortottista, otorino, podologo, osteopata, psicologo, ecc..
La domanda che si pone nella valutazione posturale del soggetto algico è:
La sede del dolore è la causa del medesimo (è il caso di un problema traumatico, infiammatorio, viscerale, tossico, ecc.), o al contrario la zona in cui il soggetto avverte il dolore è l’ultimo anello di una catena di compensi statici-posturali e la causa del dolore si trova lontano dal distretto algico?
In base alla risposta a queste domande, il trattamento, il protocollo e la strategia terapeutica saranno diversi.
• Nel primo caso s’inizia il trattamento direttamente dal distretto nel quale è insorto il dolore. Si ha una “catena posturale incoerente” (si definisce “incoerente” un atteggiamento antalgico che squilibra la normale postura del paziente, portando la linea mediana di gravità del corpo al di fuori del poligono di sostegno nella stazione eretta, e rendendola appunto incoerente rispetto alla sua morfo-tipologia fisiologica). Il dolore si evidenzia nella zona causa dello stesso; la postura del soggetto ha come imperativo la ricerca di una posizione antalgica che spesso produce un notevole squilibrio posturale. Il ruolo della terapia posturale è di riportare il soggetto al suo normale Atteggiamento Posturale Primario attraverso la scomparsa del dolore (che era causa stessa dello squilibrio).
• Nel secondo caso si lavora lontano dal dolore nella zona di rigidità primaria. Si ha normalmente una “catena posturale coerente” derivante dall’Atteggiamento Posturale Primario del soggetto (si definisce “coerente” una postura che mantiene inalterate le caratteristiche primarie del soggetto); il dolore si manifesta nei segmenti ossei che non hanno possibilità di compensare ulteriormente. È un dolore sempre d’origine posturale, la cui causa si trova lontano dal distretto algico.
In caso di dolore acuto il trattamento posturale deve tenere conto della zona dolorosa, che non deve essere ulteriormente sollecitata e deve rimanere in posizione neutra, a questo scopo è fondamentale l’utilizzo dei “cuscini di scarico” in ogni seduta posturale.
In ogni caso la messa in tensione di fondo dovrà essere esercitata nella zona di rigidità, sia che essa stessa sia dolorosa, sia che essa provochi un dolore lontano.
È attraverso lo studio della tipologia posturale nei tre piani dello spazio, confrontata con le posture dei soggetti presi in esame, che si avranno le indicazioni necessarie per lo sviluppo di un protocollo terapeutico mirato ed efficace.
C) LA PROGRESSIONE
L’errore in un trattamento posturale è sempre quello di andare troppo in fretta. Si deve invece tenere conto di 3 parametri:
1. Il tempo di messa in tensione
2. Le squadre di messa in tensione
3. Le fasi di messa in tensione
1. IL TEMPO DI MESSA IN TENSIONE
La messa in tensione globale parte da delle posture di 10 minuti nel corso della prima terapia, e si sviluppa gradualmente e progressivamente nel corso delle sedute successive, fino ad arrivare ad un tempo di un’ora di messa in tensione una sola volta a settimana (unica eccezione le scoliosi evolutive).
Il tempo di messa in tensione si adatta alle possibilità del paziente, al dolore, all’età, alla condizione psico-fisica, all’elasticità tissutale, alla tipologia del soggetto.
Un trattamento posturale di fondo ha delle ripercussioni su tutto il sistema mio-osteo-articolare e su quello neurovegetativo: una messa in tensione più di una volta a settimana può provocare dolori muscolari e reazioni neurovegetative eccessive. Il corpo ha bisogno di tempo per riequilibrarsi nelle nuove posture acquisite.
2. LE SQUADRE DI MESSA IN TENSIONE (le Posture)
La messa in tensione globale avviene attraverso tre posture di trattamento: la Prima Squadra, in cui si assume la posizione supina con le gambe elevate a 90 gradi; la Seconda Squadra, in posizione seduta con il tronco a 90 gradi rispetto alle gambe; la Terza Squadra in cui abbiamo l’appoggio al suolo dei piedi con il tronco flesso a 90 gradi.
Nella nostra lunga esperienza in Rieducazione Posturale, abbiamo potuto osservare che far mantenere al soggetto queste posizioni di messa in tensione muscolare richiedeva un notevole sforzo, e provocava spesso dei dolori durante la terapia. Inoltre non si riuscivano a controllare i compensi e le vie di fuga che provocavano un eccessivo lavoro della muscolatura dinamica che cercava di compensare la mancanza di lunghezza della muscolatura tonica.
Era un lavoro che non selezionava, all’interno delle catene toniche rigide, le zone d’ipomobilità da quelle d’ipermobilità (le zone cioè che dovevano essere messe in tensione, da quelle che avrebbero dovuto restare “neutre”), ed infine portava il soggetto a stabilire un rapporto di forza con la propria patologia ed il proprio corpo (rapporto di forza che a nostro avviso era esso stesso la causa di numerose patologie). Pur ottenendo dei risultati soddisfacenti, si notava inoltre che per molti pazienti la seduta di Rieducazione Posturale era considerata un’esperienza non proprio piacevole e distensiva e alcuni di loro rinunciavano al trattamento dopo alcune terapie perché considerato “troppo duro”.
Per questo il Metodo delle “Tre Squadre” ha sviluppato una progressione dolce e lenta: è un trattamento che prevede una notevole manualità e contatto del terapista con il corpo del paziente, il quale soprattutto attraverso il lavoro manuale del terapista prenderà coscienza delle proprie tensioni, rigidità e “blocchi”. Per mantenere il soggetto correttamente nelle squadre di “messa in tensione muscolare” e per rendere questo piacevole e nello stesso tempo efficace, si usano sia dei cuscini di scarico – che andranno progressivamente eliminati – che delle cinte di sostegno degli arti inferiori o del tronco, rigide o elastiche, secondo le possibilità e delle condizioni del paziente.
3. LE FASSI DI MESSA IN TENSIONE
Un trattamento posturale di fondo non può essere breve. Il paziente viene per un dolore, ma questo, nel caso in cui sia d’origine posturale, è soltanto l’ultima manifestazione di uno squilibrio posturale instauratosi e consolidatosi nel tempo. Ci vuole tempo, non meno di 30 terapie, per riarmonizzare il sistema mio-osteo-articolare.
Il nostro metodo miscela, nella progressione del trattamento, tre fasi.
La Fase Passiva, in cui si lavora in totale rilassamento e distensione del paziente e in cui il terapista svolge un lavoro manuale tendente a riarmonizzare l’alterato rapporto tra muscolatura tonica e dinamica, e a dissociare i cingoli scapolare e pelvico. In questa fase inizierà il lavoro di riequilibrio degli appoggi plantari e d’allineamento degli arti inferiori, che sarà preparatorio e indispensabile per la progressione del trattamento. Questa è la fase per noi più importante: il paziente impara a lavorare esclusivamente con la muscolatura tonica, lasciando completamente rilassata la muscolatura dinamica, soprattutto quella anteriore (quadricipite, addominali ecc.). È la fase in cui il paziente impara a “lasciarsi andare” attraverso il “sospiro espiratorio”, e nella quale impara a controllare i compensi dinamici.
La Fase Attivo-Passiva inizia nel momento in cui si saranno allineati due dei tre punti di repere del tronco – occipite, dorsale, sacro. Il paziente inizia, contemporaneamente al lavoro manuale del terapista, a mantenere delle posture attivamente con il supporto di cuscini più bassi e della cinta elastica.
La Fase Attiva è la fase nella quale si stabilizza il riequilibrio muscolare ottenuto nelle altre due fasi, esclusivamente attraverso le posture attive del paziente. Questa fase inizia nel momento in cui il paziente ha allineato tutti e tre i punti del tronco; come compenso è consentito solo un piccolo cuscino nell’ileo o nell’occipite e una leggera flessione degli arti inferiori. Soltanto in questa fase, cioè dopo una lunga progressione e armonizzazione muscolare, si fanno assumere al paziente posture di “messa in tensione” senza l’ausilio d’alcun cuscino o cinta.
Queste tre fasi non sono proposte meccanicamente nella loro successione, ma sono miscelate in ogni seduta adattandosi alla tipo-psico-morfologia del soggetto.
La progressione del trattamento in Prima Squadra. Da una postura con cuscini alti e con le gambe sostenute da una cinta rigida, progressivamente si abbassano i cuscini e si usa la cinta elastica. In seguito la postura è mantenuta dal soggetto senza l’ausilio di cinte e con un piccolo cuscino, che verrà successivamente tolto.
Non è il paziente a adattarsi al trattamento posturale, ma sarà quest’ultimo a adattarsi a ogni soggetto. Non si tratterà la sciatalgia del sig. Bianchi allo stesso modo della sciatalgia del sig. Rossi. Lo studio approfondito della tipologia e del temperamento del soggetto arricchisce e completa il lavoro posturale e permette al terapista di adattarsi al paziente in ogni suo aspetto consentendogli di affrontare con un ampio bagaglio di conoscenze ogni patologia.
Varie fasi della 3° squadra
Al trattamento posturale, si integrano molte tecniche manuali: le normalizzazioni articolari, la riflessologia, la digitopressione, i pompages, il lavoro fasciale, ecc..